Anche Zara, a causa delle significative flessioni delle vendite durante il lockdown, ha dichiarato di chiudere 1.200 store tra Asia ed Europa, e di volersi concentrare sulle flagship ‘iconiche’, ovvero quei negozi in cui già oggi si integrano le vendite offline e online. Parallelamente, investirà 2,5 miliardi di euro per migliorare la piattaforma e-commerce e la sua integrazione con i negozi fisici. H&M, inoltre, ha dichiarato la chiusura di diversi punti di vendita, di cui otto in Italia.
Questa tendenza, quindi, riguarda tutti i brand; ovunque, nel mondo. Se collochiamo, poi, queste notizie, in un quadro temporale e geografico più ampio, allora la connessione tra chiusura dei negozi e crisi legata alla pandemia diventa quantomeno discutibile.
Cito alcune notizie apparse, infatti, sui media durante il 2019. Victoria’s Secret a marzo 2019 prevedeva la chiusura di 53 punti vendita che seguivano alle altre 30 già realizzate nel 2018; Walmart a ottobre 2019 aveva già chiuso 22 store in USA e in Canada; Game Stop nel 2019 aveva comunicato che avrebbe chiuso 200 negozi, ma a settembre 2020 rettifica l’informazione dichiarandone la chiusura di 450 nel mondo.
La lista potrebbe continuare. Questo trend, iniziato da almeno un decennio, è il motivo per cui negli USA si parla di “Retail Apocalypse“. Il trend di chiusure di negozi fisici e il contemporaneo sviluppo delle vendite online e dei conseguenti relativi investimenti nella digitalizzazione, pertanto, non possono e non dovrebbero essere riferiti solo all’attuale crisi economica dovuta alla pandemia. Al limite, l’attuale situazione può essere un acceleratore. Volendo essere più caustici, potrebbe essere addirittura un alibi. Quale miglior momento, infatti, di questo “annus horribilis” per rendere espliciti i drastici piani di riduzione degli spazi fisici commerciali?