È una situazione senza precedenti, ma troviamo superficiale segnarla come punto di non ritorno a favore dell’e-commerce. Anche perché non è semplice acquisire vantaggio competitivo senza investimenti adeguati e con il rischio di bassa marginalità, o peggio, che questo comporta. E, naturalmente, perché si continua a pensare all’ e-commerce come alternativo e concorrente al punto vendita. Non è così.
Meno di un mese fa, l’analista di Credit Suisse Michael Binetti, nel corso di un evento pubblico tenuto negli Stati Uniti, ha espresso convinzioni importanti sulle tendenze del retail internazionale e sulle devianze concettuali della “e-mania”.
“L’ottanta per cento delle persone spende ancora il suo tempo per salire in auto e andare in un negozio per comprare qualcosa che può trovare online. Per quanto in difficoltà, il retail non può prosperare senza il negozio, anche perché l’e-commerce rimane un modo poco efficiente di acquistare beni non essenziali, e un cattivo conduttore di acquisti d’impulso”.
Parole importanti, in un luogo e in un momento di particolare apprensione. Da una parte le conseguenze della pandemia, dall’altra un processo di ristrutturazione in atto da anni che negli Stati Uniti, anche per eccesso d’offerta e contrazione della capacità di spesa, sta lasciando molte vittime sul campo. Coresight Research ipotizza la possibilità di chiusura definitiva tra 20.000 e 25.000 punti vendita, in maggioranza nei centri commerciali. Tempi durissimi per i brand che non hanno adottato, per tempo, gli strumenti utili a mantenere la competitività sul mercato.