Il 31 marzo scorso, l’IPO di Deliveroo alla borsa di Londra ha visto il valore delle azioni crollare del 30% nei primi venti minuti della quotazione.
L'IPO di Deliveroo alla London Stock Exchange è stata definita, da molti analisti, la peggiore nella storia dell’istituzione finanziaria inglese. “Nel nostro settore si è portati a capire e decidere in modo biunivoco: il retailer da una parte, i consumatori dall’altra. Chi crea il valore sulla catena che lega questi due soggetti non è di solito considerato parte della misura del modello. Il vuoto metodologico è evidente e limita pesantemente la relazione tra azienda e mercato.” (Retex, 30 ottobre 2017)
Il 31 marzo scorso, l’IPO di Deliveroo alla borsa di Londra ha visto il valore delle azioni crollare del 30% nei primi venti minuti della quotazione.
La perdita finale si è poi assestata al 26%; quanto basta per essere definita, da molti analisti, la peggiore IPO nella storia dell’istituzione finanziaria inglese. Un pessimo risultato per Deliveroo, che vede la valutazione della società ora compresa tra 7,6 e 7,8 miliardi di sterline, a fronte dell’obiettivo fissato in 8,8 miliardi. Conseguenze pesanti anche per London Stock Exchange; questa operazione, infatti, era parte dell’atteso rilancio come hub finanziario globale del post-Brexit. La decisione dell’ultimo momento, di proporre azioni a un prezzo più basso rispetto a quanto preventivato (3,90 sterline contro 4,60), non è bastata a evitare il disastro.
La “grande fuga” dei fondi d’investimento spiega buona parte dell’insuccesso dell’IPO di Deliveroo e premette molte e più ampie considerazioni. L’offerta iniziale di Deliveroo, definita da Evening Standard “il consegnatario di pasti in perdita” (non è una cosa nuova, fa pensare a un leader di mercato molto grande e solo apparentemente invincibile), ha posto domande di facile risposta. Perché un’azienda molto più piccola di Just Eat Takeaway dovrebbe valere solo poco meno? Perché investire su un campione del lockdown proprio quando la vaccinazione di massa fa pensare a un futuro diverso? La convinzione, insomma, è evidente: se finisce l’emergenza, scoppia la bolla.
L’anno scorso, quando l’emergenza sanitaria ha messo in ginocchio aziende e interi settori di attività, le app di food delivery sono esplose. Nel mondo, i ricavi complessivi sono cresciuti a 71 miliardi di dollari: +31% su 2019, +72% su 2017 (Statista); quelli di Uber Eats hanno superato in volume il business tradizionale del servizio taxi. La fragilità del modello di business, inoltre, ha spinto verso il consolidamento necessario: miliardi di sterline per la fusione di Just Eat con Takeaway.com, operazione in chiusura anche per l’acquisizione di Grubhub, miliardi di dollari spesi da Uber Eats per prendersi Postmates. Uber Eats, peraltro, continua a mostrare numeri in rosso mentre Just Eat cresce in volume e, nel 2020, aumenta le perdite del 67%.
Nonostante queste premesse, per chi frequenta regolarmente questo campo da gioco la sorpresa non c’è stata. Per chi guarda la partita dalla tribuna, invece, non è mancata, anche per le aspettative date dalla folle esplosione delle IPO su Wall Street nel 2020. Il comportamento tenuto verso l’IPO di Deliveroo dai grandi protagonisti della borsa, comunque, potrebbe essere indicativo di una tendenza di fondo: l’allontanamento dai soggetti a rapida crescita ma con debole modello di business.
Se la pandemia ha sancito la vittoria, in particolare, dei titoli appartenenti allo stay at home di cui Deliveroo fa parte, è altrettanto vero che la tanto desiderata uscita dall’emergenza, pur con le forti differenze di gradualità tra i vari paesi, ha spostato l’attenzione del mercato verso la ripresa “reale” e le catene del valore solide; oltre, naturalmente, all’efficacia delle campagne di vaccinazione da cui dipenderà l’inizio della progressiva normalizzazione sociale ed economica.
La logica d’impresa di Deliveroo, e del food delivery nel suo complesso, è recepita dagli investitori come critica. Andrew Millington, manager di UK Equities di Aberdeen Standard Investments, è stato esplicito al riguardo. Ketan Patel, gestore del fondo EdenTree Sustainable, ha descritto Deliveroo come “l’antitesi di un modello di business sostenibile“. Il rifiuto di partecipare l’IPO di Deliveroo non va certamente inteso come encomiabile sussulto etico del mercato. La realtà, più semplice, sta nel rischio di investire in aziende che potrebbero essere a pochi passi dal dallo stop alle pratiche che ne hanno dilatato le dimensioni (ma non il conto economico).
Le normative, infatti, stanno andando nella direzione opposta a quanto voluto dai competitor, e il Regno Unito sta facendo da battipista. Sindacati come l’Independent Workers’ Union of Great Britain hanno dichiarato guerra alla gig economy del cibo, vincendo battaglie importanti sulla tutela della salute e della sicurezza. Per la regolamentazione generale, è solo questione di tempo. Dopo la sentenza della Corte Suprema britannica, è giunta la decisione di Uber di assumere gli autisti garantendo loro salario minimo, ferie e contributi; in Spagna la nuova riforma del lavoro impone alle piattaforme di food delivery di regolarizzare la posizione dei rider. Just Eat, numero uno del mercato in Europa, offre già contratti da dipendente ai suoi rider inglesi.
In Italia, un’indagine della procura di Milano sulle società di food delivery, per la violazione di norme sulla salute e sicurezza sul lavoro dei rider, ha interessato quattro aziende leader del settore (Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo) e sessantamila lavoratori. Sul tavolo, la natura della relazione di lavoro, intesa come “dipendente” e ben diversa da altre forme di “collaborazione”. Per i magistrati milanesi, che ipotizzano sanzioni pesanti, “l’inchiesta si è imposta perché questa situazione di illegalità è palese”. L’iniziativa potrebbe cambiare sostanzialmente pratiche e prospettive del comparto italiano di food delivery. Nel contesto di una industry che già vede forti pressioni competitive tra le piattaforme, i rischi per gli investitori di lungo termine sembrano assodati: fare impresa in stretta dipendenza dai lavoratori della gig economy non paga. Gli investimenti verso catene del valore instabili, vincolate all’opportunità e alla precarietà, sono molto rischiosi.
Nella ristorazione, il ritorno all’out of home che ha caratterizzato gli anni precedenti la pandemia sarà lento e incompleto e il consumo a domicilio è, ormai,fattore strategico impossibile da ignorare. L’ecosistema da questo indotto, a oggi, non regge. Le app non solo dicono che il cliente ha sempre ragione, e che questa ragione va soddisfatta aumentando a dismisura l’utenza e rinunciando agli utili, ma nascondono tutti gli altri attori della catena di fornitura del pasto. Just Eat Takeaway sta già provando la consegna gratuita; Uber Eats, Deliveroo e i concorrenti saranno costretti, nuovamente, alla corsa al ribasso. La redditività del modello, per ora, è inesistente.
Il costo di questa competizione dovrà, inevitabilmente, essere distribuito sui vari passaggi della fornitura: ristoranti, piattaforme, addetti alle consegne. I primi già subiscono commissioni variabili mediamente superiori al 20% e, soprattutto, stanno cedendo a terzi il controllo dei clienti. Sarà vitale correre ai ripari puntando sull’ autonomia data dalla digitalizzazione del lavoro nel locale, in cucina e fuori; e, con questa, ridefinire la posizione con le piattaforme, da integrare nell’operatività e, al tempo stesso, da cui difendersi. L’oggetto della contesa è chiaro: la conoscenza e il trattamento dei dati e la tecnologia, nel suo insieme, devono servire al rafforzamento del soggetto locale, non alla marginalizzazione né alla “cannibalizzazione” della sua clientela.
Per gli addetti, oltre agli aspetti etici della prestazione d’opera, il consolidamento della posizione contrattuale è nell’ordine naturale degli interessi e della dimensione della categoria. Corrisponde, inoltre, all’inevitabile aumento della domanda di qualità e maggiore professionalità del servizio, oltre le logiche dell’emergenza. Dovranno essere trovati nuovi equilibri e non mancheranno le scosse di assestamento, anche violente.
I consumatori, naturalmente; non ha senso parlare di food delivery senza chiamarli in causa. In questo caso la sostenibilità diventa ineludibile anche per la domanda. Il termine “on demand”, il preferito della gig economy, rende centrali i loro capricci, e sembra lontana la consapevolezza del grave impatto indotto dall’abitudine al “quando vuoi, come vuoi, al prezzo che vuoi”.
Nell’involuzione dell’intricato rapporto tra domanda, produzione, offerta e servizio è impossibile chiamarsi fuori. I costi del food delivery sono evidenti, il modello non sta in piedi, due soggetti su tre (ristoranti e trasportatori) della catena pagano oltre misura questa comodità di consumo, il terzo (le piattaforme) non potrà trovare redditività aumentando il numero dei clienti e scaricando ulteriormente le passività sugli altri soggetti della fornitura. Il quarto (chi aspetta l’hamburger a domicilio), poi, non potrà pensare di non pagarlo per ciò che costa. Chi non ha investito sull’IPO di Deliveroo, in fondo, ha semplicemente preso atto della realtà dei fatti. Tocca fare altrettanto a tutti i soggetti coinvolti, dalle cucine alla porta di casa.