Secondo l’edizione 2022 del Trust Barometer, pubblicato ogni anno dalla società di comunicazione globale Edelman, è sempre più marcata la diffidenza verso le istituzioni e i media. Al contrario, cresce la fiducia riposta nelle imprese, grazie alla presunta, maggiore attenzione verso temi sensibili quali sostenibilità e collettività. La sintesi di Edelman è impietosa: “il business è ancora l’unica istituzione di cui ci si fida”.
Molte aziende di primo piano, di fatto, hanno sconfinato in territori normalmente occupati dalle ONG, fino al brand activism a favore di cause quali ambientalismo, inclusività, diritti sociali e LGBT, empowerment.
In questa logica, una presa di posizione sulla guerra è ineludibile, e non sarà, sicuramente, l’ultima volta. Va messa in conto, però, la possibile polarizzazione del confronto tra segmenti di consumatori diversamente orientati rispetto a un conflitto o a una causa. Vale la pena ricordare, negli Stati Uniti, la scelta di Nike di avere come testimonial il giocatore Colin Kaepernick, inginocchiatosi all’inno nazionale, e la violenta reazione da parte di Trump.
Ci sono, poi, gli scivoloni causati dall’ostentazione eccessiva di aderenza a valori morali, che possono ottenere l’effetto contrario a quello cercato. Come per l’Università di Milano Bicocca sul corso tenuto dallo scrittore Paolo Nori su Dostoevskij, per esempio, oppure il blocco dell’accesso sui contenuti russi da parte di piattaforme online con decine di milioni di utenti.
La necessità, chiara, è per i brand il posizionamento di lungo periodo rispetto a un pubblico anche più ampio del target tipico di riferimento; con il rischio implicito, però, di dovere adeguarsi a contesti fuori controllo. L’intervento della Russia in Ucraina ha originato anche una guerra digitale quale non se n’erano viste, fino a oggi. Per i brand, le capacità e l’utilità di indirizzarla o di assumere neutralità, non avranno verifica a breve termine.