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L’etica dell’innovazione digitale

29/11/2021

L’etica dell’innovazione digitale

L’innovazione digitale non è, di per sé, sinonimo di equilibrio e miglioramento comune. E' importante saper riconoscere l’equivoco della crescita indotta dalle nuove tecnologie come valore in sé, a prescindere dalla sua sostenibilità economica, sociale, ambientale.

La pandemia ha esteso, imprevedibilmente, la portata dell’innovazione digitale alla quotidianità e al lavoro di miliardi di persone nel mondo. L’evoluzione del nostro mondo va ripensata e governata in termini digitali: l’etica che la informa ne è parte irrinunciabile.

Combinare la ragione d’essere di un’azienda con il suo ruolo sociale non è cosa di poco conto. Non è insolito che i principi e i valori etici entrino in conflitto reciproco o con le necessità del business. Trovare gli equilibri tra efficienza e discriminazione, o tra produttività e sostenibilità ambientale è tutt’altro che semplice. E se, per esempio, le tecnologie sono il tramite migliore di un equilibrio nuovo tra società, economia e ambiente, per molti l’indisponibilità di queste, il cosiddetto digital divide, è un limite all’accesso a diritti fondamentali.

Nel 1970, Milton Friedman su New York Times sanciva il concetto che avrebbe poi segnato il confronto sulla corporate governance nei decenni successivi: “La responsabilità sociale delle imprese è aumentare i profitti”.  Oggi, invece, in una società digitale globale in costante evoluzione, i principi e i valori che regolano l’uso delle tecnologie sono decisivi nella relazione con l’ampio gruppo di stakeholder coinvolti (dipendenti, azionisti, clienti, fornitori, soggetti territoriali, autorità, società civile).

L’equivoco

L’innovazione digitale non è, di per sé, sinonimo di equilibrio e miglioramento comune. È immediato il riferimento alla distorsione nell’uso dei dati e al rischio che i sistemi ereditino tale distorsione;  gli algoritmi di apprendimento automatico, che guidano milioni di decisioni ogni giorno, ne sono un esempio efficace.

Il mercato, per sua natura, premia i soggetti ancorati unicamente al concetto di profittabilità e crescita. Ma occorre saper riconoscere l’equivoco della crescita indotta dalla pervasività delle nuove tecnologie come valore in sé, a prescindere dalla sua sostenibilità economica, sociale, ambientale. L’esempio più evidente viene da quello che potremmo definire startuppismo acritico: aziende che ottengono valutazioni stellari pur bruciando valore e risorse su modelli di business insostenibili che sono, poi, alla base di conti economici negativi, se non disastrosi. Dove guardare? Un’osservazione al settore del food delivery è esaustiva.

Che fare

Concetti quali sostenibilità e diritti non possono più essere concepiti come una tassa da pagare a un nuovo mainstream di pensiero, cui accodarsi con una comunicazione consona (o varie forme di greenwashing) e mantenendo pratiche di business che, nei fatti, la contraddicono. La consapevolezza degli obblighi, e dei vantaggi, di un’azienda in qualità di soggetto sociale è ancora minoritaria. Resiste, invece, la convinzione che questi temi siano una sorta di prerogativa del mondo non profit, verso il quale la diffidenza è quasi antropologica, dato questo che agisce e si esprime con pratiche e semantiche lontane dalle ragioni del business.

La trasformazione digitale, oggi, deve concepire l’etica già nella fase preliminare a un ciclo di lavoro, a un’app, a un’assunzione, in modo da non ricorrere inutilmente a nuovi regolamenti cui conformarsi per rimediare agli eventuali danni. L’obiettivo può essere raggiunto solo se la trasformazione digitale verrà disegnata ed eseguita in applicazione di nuovi KPI, vincolanti le attività aziendali come qualunque altro indicatore tradizionale (fatturato, marginalità, ebitda).

Nel futuro, l’applicazione nativa dei principi dell’etica digitale dovrà sostituire le abituali logiche di controllo retrospettivo. È una mia convinzione, e anche un augurio.

Fausto Caprini