Andamenti diversi tra i vari comparti, ovviamente, per diversi modelli e diverse aspettative di sviluppo, da combinare alla diversità per eccellenza, data dalla domanda. Questa, negli ultimi anni, ha preso percorsi nuovi e, spesso, imprevedibili, che rendono necessaria una continua riconfigurazione del mercato per i vecchi e i nuovi attori.
Oggi, parole come fast fashion, lifewear, preloved sono indispensabili a tracciare le scelte di chi distribuisce e di chi consuma; tutte riconducibili a un elemento comune, la sostenibilità. Ce ne sono anche di peggiori, comunque: gira sempre più frequentemente il termine zombie brands, a indicare i brand che hanno perso il treno sul digitale, sono sottocapitalizzati e mancano delle risorse per investire nel futuro. Per questi, una sopravvivenza a termine.
La natura della moda veloce è evidente. L’industria tessile è il secondo peggior inquinatore del mondo, sia in termini di produzione che di rifiuti. Molti marchi hanno costruito un modello di business unico basato sulla velocità con cui i capi possono essere prodotti e inviati ai negozi. Dalla forsennata rotazione sugli scaffali hanno origine le grandi quantità di merce invenduta, con gli evidenti impatti sull’ambiente.
Purtroppo, i marchi non diventano sostenibili da soli: sono pressati dalla domanda, e combinarla con le necessità del conto economico non è una passeggiata. Il mercato globale fast fashion, comunque, dovrebbe rimediare al 2020 raggiungendo un valore di circa 40 miliardi di dollari nel 2025, a un tasso di crescita annuale del 7% (ResearchAndMarkets.com).