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Centri commerciali, il futuro non aspetta

17/09/2020

Centri commerciali, il futuro non aspetta

Nella primavera del 2019, scrivevamo: "Centri commerciali, alla fine della corsa ne inizia un’altra". L'emergenza indotta dal COVID 19 ha ulteriormente complicato questa corsa, ben definita ai blocchi di partenza e molto difficile nel percorso, ancora da tracciare, che porta al traguardo.

Gli analisti di Coresight Research hanno previsto che circa il 25% dei centri commerciali americani scomparirà nei prossimi tre o cinque anni. Ma, secondo Deborah Weinswig, CEO della compagnia di ricerca, si potrebbe arrivare “fino al 50%, se non riusciamo a fermare l’emorragia. Questo finirà per cambiare il volto dell’America”.

Anche prima della pandemia, nel retail mondiale i centri commerciali erano nel bel mezzo di cambiamenti radicali. Negli Stati Uniti, però, la crisi di questo comparto della distribuzione ha un impatto non paragonabile al resto del mondo. Ne va di mezzo, infatti, una connotazione tipica di quella società.

I NEGOZI DI ANCORAGGIO

La crisi dei mall americani s’intreccia con quella dei department stores (quelli che da noi, un tempo, si chiamavano grandi magazzini), che ne coprono circa il 30 per cento della superficie. Secondo Green Street Advisors, leader inglese del settore immobiliare, più della metà dei department stores con sede nei centri commerciali potrebbe chiudere entro la fine del 2021. Alcune grandi catene, del resto, non sono più in grado di pagare l’affitto e, dopo il crollo di un’icona del retail come Sears, è toccato a Neiman Marcus e J.C. Penney ricorrere alle procedure fallimentari del chapter eleven.

Nei centri commerciali, i department stores sono considerati negozi di ancoraggio, che giustificano, con la loro esistenza, lo spostamento dei clienti e il traffico pedonale.  Altri negozi, quindi, hanno contratti di locazione con le cosiddette clausole di co-tenancy, che permettono di pagare un affitto ridotto o, addirittura, di recedere dal contratto se due o più negozi di ancoraggio lasciano una località. Complessivamente, le chiusure annunciate riguardano più di 83 milioni di metri quadrati di superficie di vendita.

Altri brand di risonanza mondiale stanno riducendo, sempre più velocemente, la propria presenza nelle ex-cattedrali del commercio. In particolare, nel settore fashion; i negozi di abbigliamento, oggi, occupano ancora la metà dello spazio dei centri commerciali.

CONVERSIONE E RIPOPOLAZIONE

S’impone prepotentemente, quindi, il tema della riqualificazione. Al centro della discussione, appassionatamente partecipata anche sui social media, il destino delle periferie, con molte comunità propense alla conversione in mercati locali o in spazi per uffici o, anche, in abitazioni a prezzi accessibili.

Molta attenzione, in ogni caso, andrà prestata ai piccoli negozi. Se, come prevedibile, i prezzi di locazione nelle grandi superfici scenderanno, per gli esercizi tradizionali potrebbe avere senso “ripararsi” nei centri commerciali, contando sull’auspicabile maggior flusso pedonale rispetto alle sedi originali.

CENTRI COMMERCIALI IN REPLICA DIGITALE

È prematura una stima di buona approssimazione di cosa, degli effetti del lockdown, sarà definitivo sui comportamenti dei consumatori nel mondo.  Il mantenimento delle distanze sociali non sarà un fenomeno di breve durata e potrebbe condizionare il comportamento di centinaia di milioni di persone. Molti clienti, che già facevano acquisti online o a questi si sono orientati a causa del COVID 19, potrebbero ridurre sensibilmente la frequentazione di luoghi chiusi.

In Asia, da Bangkok a Singapore, colpiti dalle conseguenze della pandemia, interi centri commerciali stanno virando verso l’eCommerce. A Singapore, le vendite al dettaglio di maggio sono crollate del 52,1% rispetto al 2019, massima punta negativa da quando, nel 1986, questa piazza ha iniziato a macinare record. L’economia, nell’ultimo trimestre, è caduta in recessione.

Marina Square, tra i più importanti al mondo, situato tra alberghi di lusso e attrazioni turistiche nel centro dell’isola, sta strutturando la propria replica virtuale grazie al supporto di Lazada. L’azienda, dal 2016 controllata dal gruppo Alibaba, è il maggiore operatore di e-commerce nell’area comprendente, oltre a Singapore, Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia e Vietnam.

È presto per disegnare percorsi e dimensioni del fenomeno che, sicuramente, finirà per coesistere con i centri commerciali tradizionali e non certo per sostituirne la presenza globale. Ma il processo è partito con particolare incisività proprio ad oriente, dove si stanno spostando gli equilibri internazionali del retail, e i confini di competenza andranno sicuramente definiti.

IN ITALIA

Il Consiglio nazionale dei centri commerciali contava, al termine del 2019, 1220 strutture tra centri commerciali, retail park e factory outlet. Questo per un fatturato di 139 miliardi di euro, prodotto con 587.000 addetti e un’incidenza del 4% sul PIL.

Nel nostro paese, dove la maggior parte dei negozi ha riaperto il 18 maggio, i dati della frequenza, nei primi giorni successivi al lockdown, si sono dimostrati più positivi del previsto registrando, tuttavia, un calo del 25% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Negli ultimi vent’anni, il settore ha goduto di un’espansione illimitata, oltre 13 milioni di metri quadrati; già l’anno scorso, però, ShopperTrak Italia ne aveva evidenziato la flessione, consistente, del 6,2%.

Pochi i centri commerciali che hanno mostrato un andamento degno di nota. Secondo Confimprese, Oriocenter vanta un +13% del fatturato, dato in qualche modo consolante visto che la struttura si colloca in una delle aree italiane più colpite dal flagello.

Il crollo della domanda di locazione nelle grosse superfici commerciali è molto probabile. La task force di Vittorio Colao, impegnata dal governo nella gestione della fase due, ha stilato una lista di 97 voci con l’indicazione del livello di rischio: in classe 4, ovvero con alto tasso di rischio, proprio i centri commerciali.

OCCHIO ALLE REGOLE

Oltre a gestire gli effetti della pandemia, e al disegno dei modelli di business conseguenti, si fa sentire il bisogno di rispettare i parametri urbanistici e le norme di programmazione territoriale. Con il traffico automobilistico in crescita e nel relativo aumento dell’impatto sul paesaggio, soprattutto in aree non urbanizzate, nel 2018 la Corte di giustizia europea ha confermato la bontà delle tassazioni per le grandi superfici commerciali.

Le norme a protezione dell’ambiente s’inquadrano, ovviamente, nella valutazione dell’importanza strategica della sostenibilità in qualsiasi modello di recupero e di sviluppo.

Michele CapriniHead of content