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Un' altra moda

19/06/2020

Un' altra moda

L'industria della moda vive un momento di grandi difficoltà. Nel 2020, la flessione è prevista per circa il 30% rispetto al 2019. Durante l'emergenza, le priorità di spesa hanno subito forti cambiamenti, che neppure l'e-commerce è riuscito a compensare. E, intanto, i big del settore si pronunciano contro la tendenza di mercato consolidata da molti anni: basta eccesso d'offerta, solo due collezioni all'anno. Dovranno essere riviste le catene del valore e le dimensioni e la natura delle reti di vendita.

L’industria della moda globale (abbigliamento e calzature), nelle più recenti stime di The Business of Fashion e McKinsey, subirà nel 2020 una contrazione del 27-30%. Sarà possibile tornare alla crescita, probabilmente compresa tra il 2% e il 4%, solo nel 2021.

BOLLETTINO DI GUERRA

Per quella parte della moda più marcatamente orientata al lusso, le stime di McKinsey, in collaborazione con Pitti Immagine e Camera della moda, considerano per il 2020, nell’ipotesi più ottimistica, una perdita di oltre 100 miliardi di euro. Il recupero dei livelli del 2019 potrebbe arrivare in un lasso di tempo compreso tra il 2021 e il 2023.

Giova ricordare che, per l’ultima indagine annuale di Mediobanca, nel 2018 il giro d’affari totale del nostro paese è stato pari a 71,7 miliardi di euro, in crescita del 3,4% sul 2017. Sono italiani 14 dei 46 brand più importanti in Europa.

Nel frattempo, si assommano le notizie dei danni causati al settore dall’emergenza sanitaria. Il gruppo di moda svedese Hennes & Mauritz, nel secondo trimestre, ha accusato una flessione commerciale al 50%. Le vendite online, in aumento del 36%, hanno mitigato il risultato indotto dalle chiusure dei negozi, ma ci sono ancora circa 900 negozi temporaneamente chiusi.

NEGOZI E DIGITALE, IL RIMEDIO È UNICO

Il colosso spagnolo Inditex (suoi i marchi Zara, Pull&Bear, Stradivarius, Bershka, Uterque) ha pagato pesantemente gli effetti della pandemia e del lockdown.  Per il gruppo, una perdita di 409 milioni di euro nel primo trimestre 2020, conseguente a un crollo del fatturato a 3,3 miliardi contro i 5,9 del 2019.

La ristrutturazione prevede la chiusura di 1200 negozi tra Europa ed Asia, per un deciso rafforzamento dell’integrazione tra rete di vendita ed e-commerce.  Per Pablo Isla, CEO di Inditex, “una maggior qualità del negozio significa anche una maggiore performance nell’e-commerce”.

Il commercio online, appunto, va inteso parte di una strategia globale e non, come spesso malamente inteso, una panacea di tutti i mali, anche perché le priorità d’acquisto sono state stravolte dalla pandemia. Secondo la stessa fonte, nelle settimane tra marzo e aprile il volume di vendita sul canale digitale è diminuito dal 5 al 20% in Europa, dal 30 al 40%negli Stati Uniti e dal 15 al 25% in Cina. In maniera opposta, quindi, alla crescita percentuale sul totale delle vendite.

IL “MOVIMENTO D’OPINIONE”

Che il cambiamento nel modo di fare e vendere moda fosse nell’aria, era chiaro già dallo scorso aprile, leggendo la lettera di Giorgio Armani a Women’s Wear Daily, considerato dai più la “bibbia della moda”. Il “declino”, per lo stilista, è iniziato adottando i metodi tipici del fast fashion, improntati alla velocità di avvicendamento dei nuovi capi e collezioni. “Trovo assurdo che, in pieno inverno, si possano trovare nei negozi abiti di lino, e cappotti in alpaca d’estate, per il semplice fatto che il desiderio di acquistare deve essere soddisfatto. C’è decisamente troppa offerta rispetto all’effettivo bisogno”.

Gli stessi concetti sono stati ripresi, poi, da Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, che insiste: “basta con il moltiplicarsi di collezioni ogni anno; e basta pure con la vita fulminea dei capi in negozio, per di più in completo disaccordo con la stagione metereologica. D’ora in poi due collezioni, idealmente presentate a ottobre e marzo”.

Sulla stessa linea di pensiero molte altre grandi firme, come Michael Kors che, addirittura, diserterà la fashion week di settembre a New York.  Alcune settimane fa, infine, la presa di posizione di Council of Fashion Designers of America e British Fashion Council, con la raccomandazione agli stilisti di “concentrarsi su non più di due main collection all’anno“.

COSA CAMBIERÀ

Fatte le dichiarazioni d’intenti, si dovrà attenderne l’effettiva ricaduta sul modo di vendere moda e sugli equilibri tra i diversi attori del mercato. E considerarne, anche al di là delle istanze etiche (la pressione sulla sostenibilità si va facendo fortissima), la compatibilità con volumi, redditività e operazioni. I processi tipici consolidati negli ultimi vent’anni, dal disegno alla produzione e alla distribuzione dovranno, giocoforza, essere modificati.

Ciò nonostante, alcuni effetti saranno evidenti già sul breve-medio periodo. I negozi di moda enfatizzeranno l’importanza dell’esperienza d’acquisto, integrata in una relazione unica con il cliente sui diversi canali. La personalizzazione sarà sempre più spinta e avranno sempre maggiore importanza, di conseguenza, le tecnologie utili a supportarla e a ingaggiare il cliente.

E ne farà le spese, probabilmente, anche il fenomeno tipico dell’ultimo decennio. Negli Stati Uniti, infatti, circa il 30 per cento dei marchi di moda ha già cancellato gli accordi con gli influencer.

Il recupero della competitività, dei volumi e della redditività è, oggi, un problema comune ai marchi e ai retailer. Ci saranno vincitori, magari newcomers, e vinti, magari illustri. In questo, almeno, non c’è nessuna novità.

Michele CapriniHead of content